O Gesù, i carnefici hanno potuto lacerare il Tuo corpo, insultarTi, calpestarTi, ma non hanno…

La venuta del figlio dell’uomo
La prima comunità cristiana ha vissuto innanzitutto la tensione fra due venute del Signore: quella del suo ministero terreno e quella del suo avvento alla fine dei tempi. In vista della parusia del figlio dell’uomo, ritenuta imminente, bisognava radicarsi fermamente in una santità irreprensibile. Ma i cristiani a cui si rivolge Luca cominciano a manifestare una nuova presa di coscienza.
La venuta del Signore non viene più collocata in un imprevedibile futuro: per loro, egli è già presente, nell’oggi degli uomini e della salvezza. E in ogni momento può sopraggiungere all’improvviso, per giudicare, in quell’istantanea della vita che è la morte, l’orientamento dell’esistenza umana.
L’atteggiamento che si impone allora ai fedeli è quello di una continua vigilanza: essere pronti a tutto, rifiutando le cattive azioni che si commettono nelle tenebre; rimanere desti, grazie a una preghiera incessante. Come l’eucaristia ha lo scopo di annunciare la morte del Signore «finché egli venga» (1Cor 11,26), così la vigilanza e la preghiera affrettano l’avvento del regno di Dio. Fin d’ora esse ci rialzano e ci fanno levare il capo, permettendoci di dare un nome all’attesa degli uomini. Fino al giorno in cui la corrente dell’avvento divino ci condurrà in maniera definitiva davanti al Figlio dell’uomo.
Il tempo che si snoda tra la venuta di Cristo e la sua manifestazione nella gloria è dunque il tempo riservato alla conversione degli uomini (At 3,19-21; Rm 11,25; 2 Cor 6,2) e al rafforzamento dei fedeli (Ef 6,13; Rm 8,11); un tempo umano già carico dei tempo di Dio, dato per vivere già nell’eternità.
Soltanto la grazia di Dio e la conversione ci possono liberare dalle tenebre e introdurci nella «luce» della salvezza. Per questo Paolo parla di «risveglio»: il tempo della notte è finito; non ci si comporta durante il giorno come se si dormisse ancora! (seconda lettura).
La situazione descritta dall’Evangelo come insipienza e imprevidenza: mangiare e bere, divertirsi, dormire, litigare, soddisfare tutti i desideri della carne, si ripete nelle nostre comunità e in ciascuno di noi e ci qualifica di fronte «al Cristo che viene» (colletta). Si tratta di prendere una decisione di fondo, la quale poi troverà nei diversi momenti la sua espressione concreta: prendere coscienza della nostra povertà, per aspettare il Salvatore; prendere coscienza della responsabilità che Dio ci ha affidato, risvegliandoci dal sonno e illuminandoci con la parola di Dio; aspettare vigilanti la sua venuta definitiva, quando si compiranno tutte le promesse e avverrà l’incontro con lui, che amiamo senza averlo visto e nel quale abbiamo messo la nostra fede (1 Pt 1,8).
La caduta di Gerusalemme sorprenderà gli Ebrei così come il ladro della parabola ha sorpreso il proprietario. Ma solo per i negligenti, come erano gli uomini contemporanei di Noè (Evangelo), la venuta di Gesù apparirà come l’irrompere di un ladro; per coloro che staranno «vigilanti» nell’attesa dei primi segni del Regno, Cristo verrà invece come un amico (Ap 3,20-21).
I ritmi della vita attuale sempre più convulsi, gli ingranaggi di un sistema che mira a pianificare ogni momento, anche il più privato, dell’uomo riducono sempre più il margine dell’imprevisto: tutto deve essere «computerizzato», classificato, neutralizzato, assicurato. Ma per il cristiano Cristo continua ad essere un avvenimento sconvolgente: quando irrompe nella sua vita impone un radicale cambiamento che spezza e trasforma la «routine» quotidiana.
Cristo non può essere programmato: deve essere atteso, lasciando che nella nostra vita ci sia uno spazio anche per la sua presenza. La vigilanza cristiana permette di leggere in profondità i fatti per scoprirvi la «venuta» del Signore. Esige un cuore sufficientemente missionario per vedere, negli incontri con gli altri, tale venuta.
Il Signore non viene nel rumore, il Signore non trova posto nella frenesia e nello stordimento. È venuto nella pace e per la pace. È una parola questa così usata da diventare banale: un equilibrio di paura; si parla di pace in una società intessuta di violenza e di oppressione dell’uomo sull’uomo. Si dissolve oggi anche la pace più semplice, quella della famiglia.
Solo Cristo può riunire gli uomini dispersi dall’egoismo e fare di tutti un unico popolo pacifico in cammino verso il monte del suo Tempio. L’ora di Dio giunge a noi perché ogni istante della nostra vita contiene l’eternità di Dio. Non bisogna basarsi unicamente sulla saggezza umana, e neppure aspettarsi un intervento massiccio da parte di Dio. È al presente che viene donata la salvezza. Ogni scelta che si fa nel presente fra la luce e le tenebre è un segno della venuta del Figlio dell’uomo.
L’assemblea eucaristica è la Chiesa in stato di attesa e di vigilanza, che impara a leggere, nell’«oggi» della propria storia, la venuta del Signore come momento di salvezza La Chiesa celebra il mistero dell’avvento nella liturgia, per esprimerlo nella vita. Con la fede nel Signore che viene essa è chiamata a vivere un atteggiamento di speranza e di fiducia, e ad attuare un impegno di amore a Cristo presente nei fratelli. Questa risposta di vita è frutto di grazia e viene chiesta al Padre, da cui proviene ogni bene, con insistente preghiera.
In questa prima domenica di avvento, la preghiera della chiesa esprime la speranza e la fiducia di vedere la salvezza di Dio, con la certezza che chiunque spera nel Signore non resta deluso (antifona d’ingresso):
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 24,1-3
A te, Signore, elevo l’anima mia,
Dio mio, in te confido: che io non sia confuso.
Non trionfino su di me i miei nemici.
Chiunque spera in te non resti deluso.
Il salmo 24 «Ad Te levavi animam meam», è la celebre Antifona che inaugura la celebrazione eucaristica dell’Avvento, dell’anno liturgico, di tutto l’anno, in oblazione ininterrotta. Per questo motivo il Sal 24 è chiamato “tromba d’Avvento. In questo salmo alfabetico (la prima parola di ogni versetto inizia con una lettera diversa, seguendo l’ordine alfabetico ebraico) le caratteristiche dominanti sono quelle di una supplica individuale (vv. 1-3.6-7.16-22) e di fiducia nell’aiuto divino (vv. 12-15). Il salmista sà che Dio è più grande del suo peccato e da Lui può venire l’istruzione salutare che lo porterà a ritrovare il giusto cammino (vv. 4.5.8.9).
Nel v. 1b l’Orante fedele che si sa amato fa anamnesi della sua offerta, l’offerta dell’anima che è la vita intera, nell’irreversibilità, al Dio dell’alleanza. «Dio mio» infattiimplica e consegue che già il Signore abbia pronunciato l’offerta d’alleanza: «Figlio mio, popolo mio», ed implica la formula completa: «Io sono il Signore Dio tuo – tu sei il figlio mio, il popolo mio»,con l’accettazione «Tu sei il Signore Dio nostro –noi siamo figli tuoi, il popolo tuo»;formula battesimale, che è di continuo pregata nel «Padre nostro».Nel Signore dell’alleanza fedele l’Orante può solo avere fiducia, come riafferma nell’«io di certo non sarò confuso» (v. 2a),perché la grazia dell’alleanza è perenne, e contro essa nulla possono neppure i nemici della fede e della vita di fede (v. 2b).
La fiducia è riaffermata con forza nell’enunciato che non possono essere confusi, né delusi, quanti si trovano nella sola condizione di fede vivibile, che è attendere il Signore che viene, tesi a Lui, confidando solo in Lui, nella coscienza che solo il Signore è «Colui che viene» per amore nella gioia del compimento del suo Disegno (v. 3a).L’Orante non è solo uno, singolo, è tutto il popolo. L’io del Salmista è l’anima di tutto il popolo santo del Signore Vivente e Veniente. Questo va tenuto presente adesso e sempre.
Canto all’Evangelo Sal 84,8
Alleluia, alleluia.
Mostraci, Signore, la tua misericordia
e donaci la tua salvezza.
Alleluia.
Il canto all’Evangelo è il preludio splendido alla pericope evangelica che parla precisamente di questa Venuta di misericordia e di salvezza.
Il v. 8del salmo 84 (genere: supplica comunitaria) chiede che il Signore venga di persona. È la sostanza invariabile dell’invocazione, che è sempre «epiclesi per la Presenza» operante. Poiché solo da vicino il Signore può mostrare il suo éleos, la misericordia amore, termine usuale del comportamento del Signore nell’alleanza. E solo da vicino può donare la sua salvezza, che è raduno del popolo, comunione intorno al Veniente.
Poiché l’Anno liturgico che si inizia è uno dei grandi simboli significanti dell’esistenza redenta, esso mostra un “sacramento”, secondo cui questo inizio si deve svolgere in modo puntuale e dovuto, per terminare nel suo crescendo continuo verso la Pienezza. Ora, la Pienezza è solo del Disegno divino. Questo contempla il compiersi, per vie spesso misteriose, della storia, e come storia degli uomini è spesso imponderabile. E contempla anche il compiersi nei fedeli di questo Disegno di Pienezza nella loro storia di comunità del Signore costituita sulla terra, comunità che ama il suo Signore e Lo attende ansiosamente; e poiché ciascuno dei fedeli è anche una «piccola Chiesa», la Pienezza deve riguardarli tutti da vicino, come persone.
La I colletta domanda a Dio di suscitare in noi la volontà di andare incontro a Cristo che viene con una vita concretamente impegnata nel bene, consapevoli che nell’ultimo giorno saremo salvi se avremo superato positivamente l’esame della carità verso i fratelli.
O Dio, nostro Padre,
suscita in noi la volontà di andare incontro
con le buone opere al tuo Cristo che viene,
perché egli ci chiami accanto a sé nella gloria
a possedere il regno dei cieli.
Per il nostro Signore…
La nostra assemblea eucaristica, quando ritornerà agli impegni del lavoro quotidiano, dovrà testimoniare l’avvento di Cristo e del suo regno con la parola e con l’esempio.
La missione evangelizzatrice è qualcosa di grande, ma si compie sempre con lentezza e in mezzo a mille difficoltà. Occorre perciò il dono della grazia per essere vigilanti e pazienti. Per questo la Chiesa chiede al Padre in nome di Cristo che la partecipazione all’eucarestia riveli a noi, pellegrini sulla terra, il senso cristiano della vita (orazione dopo la Comunione):
La partecipazione a questo sacramento,
che a noi pellegrini sulla terra
rivela il senso cristiano della vita,
ci sostenga, Signore, nel nostro cammino
e ci guidi ai beni eterni.
Per Cristo nostro Signore.
Gli evangeli di questa domenica sono presi dalla parte finale del discorso escatologico di Gesù e insistono assai sulla vigilanza che richiede il ritorno del Figlio dell’uomo:
- Mentre Marco raccomanda la perseveranza;
- Luca esorta principalmente alla speranza «perché si avvicina la vostra liberazione»;
- Matteo insiste sull’effetto della sorpresa, ci investe in termini duri, taglienti, ma benefici, come un’improvvisa sveglia.
Anche se ogni schematizzazione è solo di comodo, è tuttavia utile visivamente, per cui possiamo ipotizzare la seguente divisione del «discorso escatologico» di Matteo:
- Parte I: 24,4-36: i «dolori messianici» con i segni della fine, con la Venuta del Figlio dell’uomo nella sua Gloria;
- Parte II: 24,37-25,46: la vigilanza, con le tre parabole relative.
Occorre premettere brevemente che il «discorso escatologico» può essere classificato tra le zone della Scrittura che chiamiamo «letteratura apocalittica» (genere letterario caratterizzato dalla rivelazione di segreti riguardanti la fine dei tempi e il corso della storia con la descrizione di scene straordinarie).
I lettura: Is 2,1-5
La prima lettura ci presenta un breve poema, che ben si addice alla penna di Isaia, il profeta sempre ottimista su l’avvenire di Gerusalemme e ben cosciente della destinazione universale della salvezza futura. Il brano è preceduto da un versetto (v. 1), che è un titolo, dato in un secondo tempo all’insieme dei poemi raccolti nei capitoli 2-5 di Isaia.
- Innalzamento del monte Sion (v. 2; cf. Sal 48). Con un balzo nell’avvenire messianico (« alla fine dei giorni »), il profeta vede che il monte sul quale sorge il tempio sarà elevato al di sopra di ogni altra realtà, perché sia segno di richiamo e punto di incontro con Dio. Questa descrizione di Gerusalemme, come eretta sul punto più alto della terra, ci fa pensare ad altre opere innalzate verso il cielo da parte dell’uomo, nel vano tentativo di salire verso lahvé: la torre di Babele ne è il tipo (Gen 11, 1-9). L’innalzamento di Sion, invece, è opera di lahvé. Esso, però, non riguarda il luogo geografico sul quale sorge il tempio: l’oggetto della visione del profeta è il « resto » santo di Israele: lahvé abiterà in mezzo ai suoi e sarà esaltato in essi (Is. 2, 11.17).
- Convocazione universale (v. 3). Il monte del tempio cessa così di essere il segno dell’isolamento di Israele, per divenire punto di attrazione per tutti i popoli. «Tutte le nazioni», «popoli numerosi» vengono convocati, perché partecipino alla liturgia del tempio e siano istruiti nelle vie del Signore. Nel tempio di lahvé, tutti possono aver parte ai doni della parola di Dio e della legge, e possono conoscere i suoi disegni di salvezza. Si delinea già, nella visione del profeta, il tempio spirituale elevato sul fondamento della fede, per il culto in spirito e verità (Gv 4, 23-24).
- La pace messianica (v. 4). Alla scuola di lahvé gli uomini impareranno a deporre ogni ostilità e a rinunciare alle armi; la pace universale, annunciata dai profeti (Os 2, 20; Zac 9, 9-10), sarà un frutto della conoscenza del Signore (cf. Is 11,1-9). lahvé, «giudice» e «arbitro» dei popoli, placherà le oppressioni e donerà la pace.
Il testo si conclude con un invito di sapore sapienziale: Andiamo, camminiamo alla luce di lahvé! (v. 5)
SALMO RESPONSORIALE: 121, 1-2; 4-5; 6-7; 8-9 CS (cantico di Sion)
col rit. «Andiamo con gioia incontro al Signore».
Al poema di Isaia fa eco il saluto festoso e nostalgico che i pellegrini israeliti rivolgevano un tempo alla città santa. All’inizio dell’avvento, questo saluto risuona sulle labbra dei fedeli con un preciso significato escatologico. I credenti, infatti, hanno diritto di cittadinanza in quella patria celeste, di cui la Gerusalemme terrena era annuncio e figura. Nello stesso tempo, quella realtà futura annunciata da Isaia prende sin d’ora forma concreta nella realtà della Chiesa, che è la città costruita con pietre vive nella quale Dio stabilisce la sua dimora come in un tempio.
Il genere letterario dei «Cantici di Sion» vuole cantare Gerusalemme Sion quale meta dei desideri del popolo di Dio, poiché è la Madre comune, Madre anche di tutti i popoli (anche il Sal 86). Ivi avverrà il raduno finale davanti al Signore. Poiché il Signore ha eletto Sion per porvi per sempre la sua Dimora tra gli uomini, da dove fa discendere su essi la Grazia e l’abbondanza del Convito, dove mostra il Volto suo, da dove giudica, da dove salva. Così Sion è anche posta come “segno” visibile dell’unità dei “figli” suoi, anzitutto i figli d’Israele, e poi, nel progresso della Rivelazione, anche di tutti gli «altri figli», le nazioni pagane. In Sion infatti sta la beatitudine trasformante, e per farne parte occorre recarvisi, onde tributare lì la lode eterna al Signore. La teologia dei «Cantici di Sion» è importante anche perché dalle tradizioni storiche (il Deuteronomio), profetiche (Osea, Amos, Isaia, Geremia, Ezechiele), sapienziali (Proverbi, Ecclesiastico), si accresce impetuosamente la corrente riccamente variata che porta alla teologia nuziale, dove il Signore è lo Sposo divino del suo popolo, innalzato a vivere con Lui la vita di comunione nuziale unitiva; il Cantico ne sarà la perla. Il N. T. con Cristo e la Chiesa (Efesini, Apocalisse, ma già Sinottici e Giovanni) ne sarà il punto d’arrivo obbligato, la realizzazione mirabile.