O Gesù, i carnefici hanno potuto lacerare il Tuo corpo, insultarTi, calpestarTi, ma non hanno…
SANT’ANTONIO ABATE
Dopo la pace costantiniana, il martirio cruento dei cristiani diventò molto raro; a questa forma eroica di santità dei primi tempi del cristianesimo, subentrò una nuova esperienza di fede, vissuta nel desiderio di una spiritualità più profonda e radicale, per appartenere solo a Dio nella contemplazione. Questo fu il grande movimento spirituale del “Monachesimo” – di cui Antonio è considerato il caposcuola – che avrà nei secoli successivi varie trasformazioni e modi di essere: dall’eremitaggio alla vita comunitaria, espandendosi dall’Oriente all’Occidente. Antonio nacque verso il 250 da una agiata famiglia di agricoltori nel villaggio di Coma, in Egitto e verso i 18-20 anni rimase orfano dei genitori, con un ricco patrimonio da amministrare e con una sorella minore da educare.
Attratto dall’ammaestramento evangelico “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi”, e sull’esempio di alcuni anacoreti che vivevano nei dintorni dei villaggi egiziani, in preghiera, povertà e castità, Antonio volle scegliere questa strada e venduti i suoi beni e affidata la sorella a una comunità di vergini, si dedicò alla vita ascetica.
Alla ricerca di uno stile di vita penitente e senza distrazioni, lo sintetizzò nella celebre espressione “Ora et labora”. Parte del suo lavoro gli serviva per procurarsi il cibo e parte lo distribuiva ai poveri; pregava continuamente ed era così attento alla lettura delle Scritture, che ricordava tutto e la sua memoria sostituiva i libri. Dopo qualche anno di questa edificante esperienza, cominciarono per lui durissime prove: pensieri osceni lo tormentavano, dubbi l’assalivano sulla opportunità di una vita così solitaria, l’attaccamento ai beni materia ritornava prepotente.
Chiese aiuto ad altri asceti, che gli dissero di non spaventarsi, ma di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui e gli consigliarono di sbarazzarsi di tutti i legami e cose, per ritirarsi in un luogo più solitario. Così, ricoperto appena da un rude panno, si rifugiò in un’antica tomba scavata nella roccia: un amico gli portava ogni tanto un po’ di pane e per il resto si doveva arrangiare con le erbe dei campi. In questo luogo visse terribili tentazioni ma tutto superò perseverando nella fede in Dio, compiendo giorno per giorno la sua volontà. Quando alla fine Cristo gli si rivelò illuminandolo, egli chiese: “Dov’eri? Perché non sei apparso fin da principio per far cessare le mie sofferenze?”. Si sentì rispondere: “Antonio, io ero qui con te e assistevo alla tua lotta…”.
Scoperto dai suoi concittadini, che accorrevano numerosi a lui, fu costretto a spostarsi più lontano, verso il Mar Rosso. Sulle montagne del Pispir c’era una fortezza abbandonata, infestata dai serpenti, ma con una fonte sorgiva: qui, nel 285, vi si trasferì Antonio, rimanendovi per 20 anni. Due volte all’anno gli calavano dall’alto del pane; seguiva l’esempio di Gesù, che guidato dallo Spirito si ritirò nel deserto “per essere tentato dal demonio”.
E venne il tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi alla vita eremitica, giunsero al fortino abbattendolo e Antonio uscì come ispirato dal soffio divino; cominciò a consolare gli afflitti ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i nuovi discepoli. Si formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, uno ad oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del fiume; ogni monaco aveva la sua grotta solitaria, ubbidendo però ad un fratello più esperto nella vita spirituale. A tutti Antonio dava i suoi consigli nel cammino verso la perfezione.
Nel 311 Antonio non esitò a lasciare il suo eremo per recarsi ad Alessandria, dove imperversava la persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore romano Massimino Daia († 313), per sostenere e confortare i fratelli nella fede e desiderando lui stesso il martirio. Forse perché incuteva rispetto e timore reverenziale anche ai Romani, fu risparmiato; le sue uscite dall’eremo si moltiplicarono per servire la comunità cristiana. Tornata la pace nell’impero e per sfuggire ai troppi curiosi che si recavano nel fortilizio del Mar Rosso, decise di ritirarsi in un luogo più isolato e andò nel deserto della Tebaide, dove prese a coltivare un piccolo orto per il suo sostentamento e di quanti, discepoli e visitatori, si recavano da lui per aiuto e ricerca di perfezione.
Visse nella Tebaide fino al termine della sua lunghissima vita; morì infatti a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto. La sua presenza aveva attirato anche qui tante persone desiderose di vita spirituale; così fra i monti della Tebaide (Alto Egitto) sorsero monasteri e il deserto si popolò di monaci. I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8, s. Antonio scrisse ai suoi “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”. Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore. In questa chiesa a venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata per fare il pane. Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come ‘ignis sacer’ per il bruciore che provocava; per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine di Viennois.
Il papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento. Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di s. Antonio” e poi “fuoco di s. Antonio” (herpes zoster); per questo nella religiosità popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, poi fu considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla.